Farsi prossimi ai prossimi

Di Paolo Bosisio e Massimo Boi

Bene, quindi qualcuno sta pensando di diventare un nuovo volontario della Real Affori? 
Se così non fosse non disperate, oggi provo, con l’aiuto di un caro amico, a donarvi una nuova testimonianza di cosa significhi esser volontario ed a presentarvi un’altra attività che prende vita nella nostra comunità.

Nonostante anch’io personalmente ne abbia preso parte, vorrei che fosse proprio Massimo, uno dei primi testimoni di questo servizio all’interno della nostra parrocchia, a parlarvene…

Le 5 W sono il mantra del giornalismo di tutti i tempi e di tutte le estrazioni, comprese le più umili o inesperte. Quindi lasciamo che sia… Consapevoli però della prepotenza della quinta: Why (perché) che oltre a regalare un senso alle altre quattro, è in grado da sola di muovere le persone.

Inizio così a raccontare di tre persone, poi diventate un bel gruppo, parrocchiani di Santa Giustina in Affori, che nell’inverno di qualche anno fa, decisero di usare in maniera diversa un po’ del loro tempo. Fatale fu il loro incontro con un giovane prete ed alcune persone da lui guidate, nella bella realtà della parrocchia di San Simpliciano. Noi volevamo uscire dai nostri confini un po’ ristretti e loro avevano la ricetta già bell’è pronta, con una mission di quattro parole che riassumeva il tutto: “Dalla strada alla Comunità”. Non so se fu più il vino che aveva rallegrato la serata, o la luce che brillava negli occhi di chi raccontava, fatto sta che qualcosa ci colpì del loro parlare di quell’esperienza. C’era un’ineludibile corrispondenza di cuore tra quello che da un po’ frullava nelle nostre teste e quanto stavamo ascoltando.

Da quel Martedì sera e per tutti quelli che sono venuti dopo, li abbiamo affiancati in una distribuzione di cibo alle persone senza fissa dimora. Quelle strane figure, cui spesso prestiamo poca attenzione, che si possono incontrare, la sera, lungo le vie e sotto i porticati intorno a Piazza Duomo.

Finché il Covid lo ha concesso, servivamo un piatto di spezzatino caldo con tanto di contorno, frutta e dolce. Tutto veniva cucinato e preparato da un buon numero di volontari nella cucina dell’oratorio, per poi essere distribuito in serata dal resto della truppa, a cui noi siamo stati arruolati. 

Una domenica al mese l’operazione cambiava senso di marcia, con la preparazione di un pranzo, un vero “pranzo della domenica”, in parrocchia. L’idea di questo gesto era ancor più buona dei piatti serviti: tavoli apparecchiati con tovaglie, tovaglioli, centro tavola fioriti, bicchieri e piatti. Insomma tutto come nella migliore tradizione dei pranzi domenicali in famiglia. Con la speranza di far sentire a casa, chi una casa non l’aveva, e regalare tempo. Tempo per parlare, tempo per ascoltare storie incredibili, tempo per farsi vicini a chi di solito non lo è affatto.

La pandemia ha portato via parecchie “chicche” tra questi gesti, ma non la sostanza. Sospesi i pranzi in Brera e rimpiazzato il pasto caldo del martedì sera con un più triste sacchetto di viveri confezionati, si sono moltiplicati, però, i gesti di solidarietà di fondazioni private e aziende, che hanno iniziato ad appoggiare in solido quest’opera.

Si potrebbe parlarne ancora a lungo, cose da dire e da spiegare non mancherebbero, ma, per così dire, incombe la quinta delle W: perché? 

Intanto raccontiamo cosa ci aveva mosso. Non una decisione di testa, nessun ragionamento, nessun senso del dovere, ma l’idea di essere utili a qualcuno. Perché se il vero povero è chi non ha nulla da donare, in certe circostanze, noi ci sentivamo tali. Così, senza troppi ragionamenti, l’incontro con questo gruppo di amici aveva messo in gioco noi stessi, alla ricerca della ragione che muove le persone a farsi prossimi ai prossimi. Aggiungiamo poi un pugno di curiosità che prende di fronte a ciò che è sconosciuto, un pizzico di fanciullesca sfrontatezza nell’approcciare le persone,  umanità nel rapportarsi con la gente q.b. e la ricetta è pronta.

Non è questione di quello che si fa. Distribuire un piatto di minestra, portare una coperta a chi dorme all’aperto, far compagnia ad una persona sola, ascoltare chi è disperato, valgono tutti la stessa cosa. Vado oltre, non è neanche il bisogno di far del bene, intento assolutamente onorevole, che però non riesce a rispondere appieno a quel desiderio di dare che abbiamo dentro.

Come posso dire, è un incontro. E’ una faccia. Un nome. Una breve battuta, o una storia di una vita intera. E’ un grazie e un arrivederci.

Questo aveva sconvolto le nostre prime serate per strada: la sensazione di essere con persone che erano lì per incontrare altre persone. Profondamente interessate all’uomo o alla donna di fronte a loro. Pronte a festeggiarne il compleanno con una torta, seduti su una panchina, al freddo della luce tremolante di un lampione.

Mettiamola così: al martedì sera, a parte la distribuzione di quanto i nostri amici preparano, si condivide  quel tanto (o poco) di umanità che abbiamo dentro. E di questo, chi si fa tuo prossimo, te ne sarà riconoscente oltre ogni limite. Per questo le persone tornano ogni martedì sera e lo fanno con tutta la dignità che hanno, magari tribolati dalle loro innumerevoli disavventure, contrariati dal nostro mondo, ma in fondo grati e, a loro modo, perfino rispettosi di chi hanno di fronte e di fianco. 

Felici, felici è la parola giusta per descrivere come tornavamo e come torniamo a casa. Silenziosi a tratti, pensierosi a volte, ma felici. Sorpresi, attoniti, preoccupati, sollevati, soddisfatti, infreddoliti, mettete voi l’aggettivo che preferite, ma comunque felici di aver dato un senso assolutamente nuovo ad un’ora del nostro tempo.

Dunque sta qui la risposta alla quinta W. Continuiamo per noi stessi, per quella sensazione, slegata da ogni aspettativa sul risultato, che sa di felicità nel dedicarsi volontariamente agli altri.

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